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Australia, dopo Sydney è incubo Jihad

Pacco sospetto al ministero del Commercio

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A Sydney di una cellula di jihadisti vicini o affiliati all’Isis si parlava già da settembre. Era stata sgominata, ma è facile supporre che si sia ricostituita tra la fine di quel mese (il periodo in cui i giornali avevano riportato la notizia del suo smantellamento da parte della polizia australiana) e il 15 dicembre, la data che nella storia di Sydney da ora in poi sarà ricordata come quella dell’attentato alla cioccolateria di Martin Place: non è un caso che il suo autore, il cinquantenne Man Haron Monis, un mese prima di compiere l’impresa   
si fosse sottomesso al califfo al-Baghdadi. Nato in Iran, Monis viveva in Australia dal ’96 godendo della condizione di rifugiato politico: da tempo era noto alle forze dell’ordine come individuo “mentalmente instabile”, ma anche dalle tendenze spiccatamente estremiste. Sembra in realtà che, in linea con le sue abitudini, abbia agito da solo, e che dunque non avesse alle spalle alcuna rete o organizzazione: per giunta, man mano che le notizie sul sequestro dei clienti e l’assedio della polizia (culminato con la morte di due clienti, oltre che dello stesso Monis) si facevano più precise, parecchie autorità islamiche si sono dissociate dal suo atto. Il problema è che, pur senza volerlo, Monis si è trovato a fare da apripista (da riapripista): col suo atto  ha galvanizzato nuovamente gli entusiasmi dei gruppi jihadisti australiani, li ha scatenati un’altra volta. L’Isis si è appropriato dell’attentato, rivendicandolo quasi come proprio, e servendosene per lanciare un monito all’Occidente affinché cessi “i crimini contro l’Islam”. E intanto, un pacco sospetto è spuntato nella sede del ministero degli Affari e del Commercio estero a Canberra.  

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